Carlo B. – Narrare Improprio

Lana d’amore

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La pettinatura Tre Stelle l’avevano aperta un secolo prima nello stesso stanzone, solo che allora si faceva tutto a mano, con i pettini e la pazienza.
– Ti immagini passare tutta la vita seduta su uno sgabello a pettinare la lana? Impazzirei.
– Perché noi cosa facciamo?
Franco era sempre arrabbiato, non gli andava mai bene nulla: il padrone, gli orari, il rumore delle Pettinatrici Marzoli, le cataste di lana all’ingresso, la concentrazione del potere, la meccanizzazione dell’industria, l’impoverimento degli operai.
– Ma tu lo sai che Marx lo scriveva già nel Capitale che le pettinatrici meccaniche sono alla base della concentrazione della ricchezza?
– Però comode le montagne di lana, no?
Franco mi guardò e arrossì. Andava rimesso al suo posto ogni tanto o non la finiva più. Perché, anche se sono donna, a me non importava nulla che lui e la Patrizia rimanessero sempre gli ultimi ogni venerdì sera, né che lo stesso capitasse il mercoledì con la Laura. Eravamo nel ’69 e in Francia avevano quasi fatto la rivoluzione, figurarsi. Ma Franco aveva quel suo comunismo sovietico, ipocrita e maschilista, che era insopportabile.
La moralità del comunista, il comportamento del comunista, l’esempio del comunista. In sezione ci attaccava dei sermoni infiniti e poi qua sciupava chili di lana che una volta avevo perfino dovuto buttare, tanto era intrecciata a forza di saltarci sopra.
La mattina sembrava che le pettinatrici la mangiassero, la lana. Fiumi di bianco ingoiati, ora dopo ora, senza saziarsi mai. Oh, non ci vuole Freud. Anche il padrone ci scherzava:
– Hanno fame le ragazze!
E via a ammiccare, mentre gli operai se la ridevano.
E Giulia – che non era comunista, ma organizzava sedute di autocoscienza alla Casa del Popolo di Coiano – si metteva a urlare contro il potere fallocentrico e oppressivo del capo, contro la falsa solidarietà dei proletari maschi, a favore dell’autodeterminazione del corpo. Si beccava sempre qualche parolaccia.
Era stata a Parigi in autostop l’anno prima e già per questo mi pareva affascinante. Alle volte, il martedì, rimanevamo io e lei a chiudere, ma al massimo qualche bacio che io, anche se faccio la spavalda, in fondo sono bigotta perché mi piacciono solo gli uomini.
– Franco, ma secondo te la Giulia, fuori da qui, che fa?
Franco non sapeva mai nulla che non stesse in fabbrica. Fuori era uno ordinario, il venerdì sera in piazza del Comune non lo distinguevi nella folla. Ma qui, quando litigava per avere la mensa e quasi faceva a botte con il padrone, anche a me pareva bello e affascinante, con quella barbetta, le spalle grandi.
Magari un venerdì mi fermo anch’io un po’ di più, che tanto la Patrizia ho visto come ci guarda, me e la Giulia, quando ci trucchiamo in bagno.
– Franco, aiutami a spostare quella lana in magazzino
La sirena della fabbrica ululava a tutta gola.
– Che dici, per tre basta?

Written by Carlo

14/09/2017 at 08:19

Quando rido

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Quando rido, mi appaiono intorno agli occhi delle increspature profonde. Sotto, due cerchi scuri. Guardo questa foto, fra le poche che sopporto: denti appena ingialliti, barba brizzolata, occhi più celesti del solito. Guardo le mani, forti, agili, ma con le vene più sporgenti di una volta, appena qualche millimetro, coperte da tante, piccole, cicatrici invisibili: una fetta di pane troppo dura, un gatto, un cancello arrugginito. I miei occhiali sono più spessi, ma la montatura nasconde le lenti. Quando leggo, due piccoli punti scuri inseguono le lettere da sinistra a destra: non c’erano. So che non se ne andranno più. Fra i tanti capelli castani, si vergognano i pochi bianchi che si arrampicano dal basso, partendo dalle tempie verso la cima.

Il tempo sono io. I 35 anni passati sono tutti seduti qui con me: nel mio stomaco, nel fegato, nei reni, nella vescica, nei polmoni, nel cuore, nella trachea stanca, nel cervello. Sono la mia saliva, il sudore, lo sperma, il sangue. È tempo di bilanci? Devo tirare una riga qui e sommare in colonna i successi, i fallimenti, le piccole virtù, le meschinità? O devo nuotare controcorrente, vestendo jeans più stretti, magliette più colorate, barbe più lunghe, scappando in velocità? O devo fingere, annuire con saggezza, risolto, tranquillo nello splendore della maturità?

Ho fatto pace con molte cose. Sono meno arrabbiato, respiro, perdono. Ho imparato a guidare e, sebbene non ci siano strade o mappe, stringo il volante. Ho ancora paura e fuori è buio. L’alba che arriva disegna un orizzonte lontanissimo. Mi stupisco. Come ci sono arrivato? Una caduta continua, come nei sogni. Le sagome acquistano contorni più netti, ma le sorpasso troppo veloce. Continuo impercettibilmente ad accelerare verso il sole che sorge, laggiù. Vorrei un po’ di musica.

(foto di Mirko Lisella https://www.facebook.com/mirko.lisella)

Written by Carlo

10/10/2015 at 22:37

Pubblicato su In-splora

L’Italia della malinconia

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“Di questa inesorabile fine, insieme all’oscurità, alla pioggia e al blindato che si intravede dietro al schiera, di questa fine d’epoca così evidente nella sua attualità, sono dolorosi testimoni gli ortaggi sparsi sull’asfalto”. Filippo Ceccarelli sul Venerdì di Repubblica, così parla degli scontri alla Festa de l’Unità di Bologna commentando questa foto.

 

Leggo spesso i quotidiani e i loro inserti, lo confesso. Mi piace la carta, il rumore che fa. Lo schermo di un computer acceso si aspetta qualcosa, la carta non chiede niente. Penso: la carta è migliore dei pixel. E quindi i libri sono migliori degli e-book. Ogni volta, dovrei aggiungere una clausola: migliori per me. Io esisto con una mia storia precisa alle spalle. Sono nato nel 1980 e quindi ho vissuto in un’epoca definita, carica di modi di fare e abitudini che oggi sembrerebbero ridicole (il mio commodore16 impiegava un’ora a caricare un gioco e il software stava su una musicassetta). È su quella storia, sulle abitudini, sui modi di fare e di pensare, che ho costruito il mio gusto che adesso mi pare tanto naturale e condiviso. Come ci insegna la critica letteraria: il buon gusto è un’ideologia e non ha nulla di naturale. A fatica, ma posso immaginare che, per chi nasce oggi, l’e-book sarà la norma (rimpianta) e gli ologrammi fluttuanti la novità (detestata).

 

Tutti abbiamo sperimentato la malinconia del rivedere i telefilm, i giocattoli, della nostra infanzia. La rete è piena di pagine dedicate a queste reminiscenze crepuscolari (“sei degli anni 60/70/80 se…”). Non serve essere fini psicanalisti per capire che non è tanto il ‘grillo parlante’ o il ‘dolce forno’ che rimpiangiamo, quanto noi stessi allora: giovani e immortali. Rimpiangiamo il tempo che passa e la distanza che ci separa da quegli anni (che ricordiamo sempre splendidi). Diventa sempre più difficile non cedere: aumentano le cose di cui sentiamo la mancanza, l’idea di essere immortali diventa insostenibile.

 

In questi mesi, leggo spesso che l’Italia è condannata: persi i grandi ideali di una volta, consumati i riti collettivi come, appunto, le feste de l’Unità, introvabili i cortili dei Salesiani pieni di giovani, inetto il governo (sempre peggiore del precedente, a sua volta, all’epoca, considerato inetto). C’è un intero filone di articoli, spesso legati a intellettuali di sinistra e sessantenni, che piange il tramonto di un’epoca: quella in cui la cultura contava davvero, quella dove si scrivevano romanzi migliori, quella in cui si leggeva di più, meglio, si faceva politica di più e meglio, c’erano più speranza, il futuro brillava, etc. etc. Un attacco generalizzato di malinconia.

 

C’è una generazione precisa, proprio quella dei sessantenni di oggi, che è cresciuta nel periodo più florido di tutta la storia repubblicana: PIL a doppia cifra, modernità, successo. Bastava aprire un’edicola per costruirsi una villetta di tutto rispetto. E oggi, questi stessi ‘giovani’ rampanti, sono diventati giornalisti, intellettuali, così come sono diventati insegnanti e tutto il resto. Così come sono invecchiati. Si guardano, guardano quello che l’Italia è diventata, e misurano lo scarto che c’è fra i loro sogni e la realtà. Fra le speranze di costruire un mondo migliore e il mondo così com’è. Non è sorprendente, anzi. Forse è naturale.

 

Quello che invece è strano è che non ci siano voci diverse: dove sono i giovani giornalisti che parlano di futuro? Che misurano i fatti, li criticano, ma non in base all’età dell’oro perduta. Dove sono i nuovi industriali che, nonostante la crisi, i mercati saturi, la globalizzazione, si buttano in nuove imprese e, a volte, hanno successo? Invisibili, coperti dalla melassa. Eppure ci sono: nascono nuove case editrici, gli artisti continuano a raccontarci il mondo. Anche dopo la fine di Bisanzio, si continua a fare poesia.

 

Il nostro non è il migliore dei mondi possibili. È il mondo che abbiamo. È carico di ingiustizie e di grandi esempi di umanità. Iniziamo a raccontare queste storie, belle, brutte, per quelle che sono. Non com’era bello vent’anni fa (che poi io c’ero. Non era così bello). I sogni si infrangono una volta per generazione: non è così raro. E non dovrebbe fermarci.

Written by Carlo

30/05/2015 at 10:10

Partono tutti

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Partono tutti. D’improvviso, senza essersi messi d’accordo, partono. Un attimo sono qui, vicini da allungare un braccio e toccarli, un attimo sono punti all’orizzonte, tremolanti come fatemorgane. Nessuna prosopopea, pochi saluti: ora ci sono, ora non più.
Io resto seduto, in attesa che ne arrivino di nuovi. Negli ultimi anni sono sempre di meno. Da quando hanno aperto l’autostrada, quasi nessuno si avventura fin qui. Vorrei poter dire che non mi dispiace, che sono contento per loro che hanno trovato una destinazione migliore, ma non è vero: guardo questo motel e le stanze vuote mi mettono una tremenda tristezza. Spazzo continuamente i corridoi, apro tutte le finestre e poi le richiudo, tendo l’orecchio alla strada per non perdermi l’avvicinarsi di qualche motore, indovinare se stia rallentando o se stia entrando nel vialetto. Non succede quasi mai. Passo in rassegna le 15 chiavi che stanno appese dietro la mia schiena e le disprezzo: quella plastica dozzinale, il rosso sbiadito dei numeri, tutto mi sembra colpevole.
Solo ieri erano qui in tre. Ho preparato caffè fresco, cucinato delle uova strapazzate, ho perfino scongelato mezzo chilo di bacon che dalla cucina si sentiva fino al secondo piano. Faccio tutto io: cucino, pulisco, tengo i conti, riparo porte e finestre. Non c’è nessun altro, quindi, per forza. Vorrei avere qualcuno a darmi una mano, ma non potrei pagarlo. Alle volte mi chiedo se mi troveranno disteso sul bancone, coperto di mosche. Poi apro la vetrinetta del bar, tiro fuori la bottiglia di gin e me la porto in camera. Quelle sono le sere peggiori.
No, non è vero, quelle peggiori sono quando scendo in cantina e apro il freezer. Fa sempre resistenza, devo tirare la maniglia fino a diventare rosso: la sua bella spia accesa, la ventola che attacca e stacca con regolarità. E poi la vedo lì dentro: bellissima, come se ancora potesse parlare e baciarmi. Non la tocco, ho paura che ci siano dei batteri o che ne so. Quelle peggiori sono quando scendo e ho paura che il freezer sia vuoto. Scendo e lo guardo, senza aprirlo, e aspetto che sia mattina.

Written by Carlo

21/04/2015 at 17:44

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Kumasi

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A Kumasi mi accorsi di essere bianco: camminavo per strada ed ero bianco; mangiavo in un ristorante ed ero bianco; prendevo un taxi ed ero, terribilmente, bianco. Tutti mi squadravano. I bambini mi camminavano a fianco per chilometri. Camminavo perché, a parte lavorare e dormire, non avevo altre attività. Vivevo ospite di un pastore anglicano nell’unica casa in muratura di Ahenema Kokobin. La strada era di un asfalto sottile che ad ogni pioggia cedeva un po’ di più. Per arrivare si camminava fra tetti in lamiera e pali in legno che sorreggevano un groviglio inestricabile di cavi dai quali, quasi sempre, arrivava l’elettricità per le televisioni e le radio. Il pastore aveva sette figli, quattro maschi e tre ragazze, tutti più giovani di me.
Ogni mattina l’autista musulmano del pastore mi portava in città, alla Kumasi Savings Limited, una banca con le mura giallo ocra. Guidavamo per quasi un’ora a passo d’uomo e, nel tragitto, compravamo ananas fresco, carta igienica e succhi di frutta che dei ragazzini portavano in grandi bacinelle sulla testa. La puzza di gasolio era terribile e peggiorava dietro ai furgoni stracarichi di pendolari. Tutto era di un marrone rosso che, dai bordi della strada, si sollevava in nubi colorate e copriva i muri delle case, gli alberi e i marciapiedi. Il primo giorno mi presentai in banca in giacca, ma senza cravatta. I miei colleghi mi guardarono nervosi finché il capo ufficio si avvicinò e mi fece notare che ero l’unico a non portarla. Sulla porta troneggiava un cartello in legno dipinto a mano: “Microfinanza”. Eravamo sedici: quattro uomini con scrivanie impeccabili e dodici donne con l’uniforme gialla della Kumasi Savings che giravano i mercati, le botteghe, i banchetti di tutta la città per recuperare la quota mensile da centinaia di nostri clienti. Avevano un blocco di ricevute dove annotavano nome, numero di tessera e ammontare. Camminavano per dieci ore sotto il sole, dall’alba al pomeriggio inoltrato e poi tornavano in banca, ci lasciavano i soldi, le ricevute, e stramazzavano sul divano, aspettando che noi uomini controllassimo.
– Si ricordi questo – mi disse il capoufficio seduto sulla più grande poltrona che avessi mai visto – noi diamo prestiti a chi non ne avrebbe da nessun altro – Annuii ripensando a tutti i libri dell’università che non avevano nulla a vedere con quello che succedeva. Ci stringemmo la mano, l’ufficio si riempì di segretarie e postulanti e mi costrinse a scivolare fuori fra fascicoli agitati e impeccabili camicie, tutte stirate molto meglio della mia.
Le domeniche erano per me e l’autista mussulmano che mi aveva preso in simpatia perché, sebbene non mussulmano, non ero comunque cristiano a tutti gli effetti: non andavo a messa, non digiunavo il venerdì. E un bianco non cristiano era qualcosa che non si vedeva tutti i giorni. Mi raccontava di una donna di cui si era innamorato. Si vedevano di nascosto lontano dal quartiere per prendere un caffè. Lei era anglicana e se la sua famiglia l’avesse scoperto sarebbero stati guai per entrambi. Almeno erano tutti e due degli Ashanti e questo giocava a loro favore. Era complicato: ognuno aveva cinque, sei identità come cartellini attaccati alle spalle che si intersecavano in maniera imprevedibile. Religione, tribù, nazionalismo ghanese, partito politico, squadra di calcio. Lo stadio era uno dei pochi posti che riuniva tutti e gli Asante Kotoko mescolavano gente di ogni tipo. Le elezioni, invece, dividevano e chi votava Congresso Democratico Nazionale quasi non parlava a chi votava Nuovo Partito Patriotico, ma ogni altra differenza non contava per il tempo della campagna elettorale. E, in questo flusso costante e interscambiabile, solo io ero inesorabilmente bianco.
Quando entravo in un caffè mi servivano per primo, anche con una fila di dieci persone. Davanti al mercato scatenavo una corsa a vendermi statuette, borse e piatti in ceramica anche quando volevo solo comprare del riso e qualche patata. I giovani mi guardavano con risentimento e i vecchi con adorazione. Entravo in un ristorante e la conversazione si abbassava. Mi guardavano senza rimorso, indicandomi e dandosi colpetti sulle spalle.
Una mattina trovai il mio capo fuori dall’ufficio, accanto al pick-up blu con lo stemma della banca. Sul retro c’era una cassaforte verde con sopra il nostro portiere che per l’occasione sfoggiava un fucile a pompa. Mi guardò sudando nella sua uniforme celeste, sotto al cappellino e agli occhiali da sole. Il capo sudava nel suo doppiopetto grigio scuro:
– Oggi andiamo sul campo – indicò vagamente il nord – vedrai.
I miei colleghi sorridevano nelle loro camicie bianchissime. Sembravamo dei ragazzi in gita. Uscire da Kumasi a quell’ora era facile. Dopo un’ora ci ritrovammo su un lunghissimo rettilineo che tagliava in due la foresta: non c’erano più baracche, né pali della luce e i cellulari uno ad uno si arresero. Noi sedevamo al fresco dell’aria condizionata e il portiere fuori continuava a sudare accovacciato con il fucile fra le gambe. In un punto qualsiasi della distesa di mare verde apparve una pista sterrata che partiva perpendicolare alla strada e spariva verso l’orizzonte, dritta come un righello. Owusu, l’autista, rallentò e svoltò senza dire una parola. Quando passammo dall’asfalto allo sterrato il pick-up sobbalzò e il portiere sbatté la testa contro la cassaforte, gridando arrabbiato. Noi scoppiammo tutti a ridere e Owusu, per rafforzare l’effetto, accelerò e iniziò a zigzagare rapido finché il portiere dietro iniziò a urlare minacce e a battere i pugni sul tettuccio. Non c’era nessuno per chilometri: guidammo per quasi due ore senza incontrare una macchina. Non c’erano altre piste che partissero dalla nostra, solo alberi e foglie grandi quanto un uomo adulto. Sembrava che il paesaggio non sarebbe cambiato mai: la strada marrone, il mare verde, un cielo blu infinito e noi chiusi in una scatoletta con l’aria condizionata, stretti nelle nostre cravatte ben allacciate. Ci addormentammo tutti.
Quando aprii gli occhi ero da solo, il pick-up ancora acceso e fermo in mezzo alla strada, e Owusu che parlava con il mio capo cento metri più avanti, mentre i miei colleghi se ne stavano in disparte. Non avevano l’aria felice: il capo urlava qualcosa, Owusu un po’ guardava per terra, un po’ rispondeva agitando un dito verso la pista. Scesi anch’io.
– Che succede?
– C’è un lago di fango – mi disse il portiere armato – e Owusu non vuole passare.
– Siamo già in ritardo di un’ora – disse Yaw, il più giovane.
Alex, il più vecchio, scosse la testa: – Il pick-up non è una jeep. Owusu sa quel che fa. –
Owusu aveva lavorato in Costa d’Avorio per dieci anni ed era tornato in Ghana solo l’anno prima. Aveva guidato su tutte le strade, dal Ghana al Camerun. Spesso lo prendevamo in giro facendogli credere le cose più assurde, ma quando guidava ci fidavamo. Il capo stava urlando, la gola gli si gonfiava. Owusu non era da meno e urlava alla strada, pestando i piedi, tirando pedate ai sassi.
– Parlaci tu – mi disse Alex – il capo ti ascolta.
Non mi sembrava una grande idea, ma tutti e tre erano entusiasti: avrei risolto di sicuro la questione. Mi avvicinai e, dopo aver ascoltato per cinque minuti buoni i due uomini che si davano di incapace e di idiota a vicenda, buttai là un:
– Capo, Owusu è un buon autista, non dovremmo fidarci? –
Mi guardò con odio e, se avesse potuto, mi avrebbe preso a cazzotti.
– Tu sei qui da molto poco – mi sibilò in faccia – fai decidere a me di chi fidarmi. E tu – tornò a urlare a Owusu – o metti in moto e attraversi quella pozzanghera o quando torniamo alla banca non avrai più un lavoro! –
La parola ‘lavoro’ risuonò sulle chiome degli alberi come un tuono. Owusu sputò per terra e si rimise al volante. Noi rimanemmo a guardare mentre lui accelerava, lanciando il pick-up a 60, 70 chilometri, volava sul fango sollevando schizzi alti due metri che sporcarono le foglie ai lati della strada, accelerò ancora facendo sbuffare la marmitta di un fumo nero e denso, avanzò, mancavano si e no tre metri all’asciutto, avanzò ancora, ma più lentamente e poi, esausto, il pick-up si adagiò come una barca che plana, abbassando la prora alle onde. I primi attimi erano quelli in cui ancora si poteva fare qualcosa: Owusu sterzò accelerando a sinistra, poi a destra, le ruote giravano a bagno nel fango e il pick-up dondolava avanti e indietro cercando di prendere slancio, una, due, tre volte. Poi Owusu spense il motore e scese senza dire una parola. Il pick-up aveva il fango fin quasi all’altezza delle portiere e le ruote avevano scavato delle buche profonde dove si erano rifugiate al calduccio.
Senza il borbottio del rumore, il silenzio era assoluto. Eravamo imbarazzati, Owusu si sedette sul ciglio della pista accendendosi una sigaretta, il capo era livido e non diceva niente, noi ci guardavamo, guardavamo il pick-up e poi guardavamo il cielo.
– E adesso? – chiesi sottovoce ad Alex che era accanto a me
– Adesso nulla. Aspettiamo –
Rimanemmo lì per due ore e mezza. Il capo si era calmato anche se ogni tanto continuava a lanciarmi degli sguardi di minaccia. Owusu sembrava essersi dimenticato di tutto. Chiacchieravano di donne, delle colleghe in banca, delle mogli. Il caldo era insopportabile: era quasi mezzogiorno e noi avevamo ancora addosso le nostre camicie ormai bagnate e le cravatte. Yaw raccoglieva dei sassolini e li lanciava in mezzo alla pista. Non successe nulla per molto tempo. Io iniziavo a preoccuparmi: i cellulari non prendevano, avevamo si e no un paio di bottiglie d’acqua, il pick-up era immerso nel fango fino alle portiere e sembrava una patatina nella maionese.
– Cosa facciamo quando fa buio? – chiesi. Si misero tutti a ridere. – Hai paura, amico mio? Ci mangiano i leoni? – Yaw ruggì agitando in aria le mani come zampe e gli altri risero.
– Non ti preoccupare – mi disse Alex – Saliamo in macchina e aspettiamo domattina. –
Mi venne spontaneo scuotere la testa.
– Se avessimo ascoltato, Owusu non staremmo qui a scioglierci –
Non mi rispose nessuno, finsero di non aver sentito. Solo negli occhi del capo brillò per un attimo, appena percettibile, un furore cieco. Mi sedetti all’ombra di un banano con la schiena appoggiata al fusto. Erano degli idioti. Non avrebbero mai imparato. La prossima volta avrebbero rifatto esattamente lo stesso. Iniziavo a generalizzare: ben presto era quello il problema che teneva tutta l’Africa in scacco. Non il colonialismo, gli schiavi o la corruzione. Avrei saputo io come mettere le cose a posto.
Immerso in pensieri simili, non sentii il borbottio di un motore in lontananza, qualcosa di molto lento. Ci alzammo tutti insieme: un piccolo trattore arancione veniva verso di noi. Non avevo idea da dove fosse stato paracadutato, ma aveva delle corde e un gancio che liberò il pick-up in pochi minuti. Owusu abbracciò il contadino e gli regalò un pacchetto di sigarette che l’altro non voleva accettare, ma che alla fine si mise in tasca con un sorriso. Ripartimmo a tutta velocità per recuperare un po’ del tempo perduto. Owusu guidava con gli occhi sulla pista, pronto ad evitare buche o altro e noi stavamo in silenzio con giusto quella dose di tensione che un pick-up carico di un uomo armato e in corsa su una pista sterrata non può mancare di creare. Non c’era più l’atmosfera da gita della mattina e avevo l’impressione di aver commesso qualche sbaglio.
Arrivammo ad un villaggio di capanne in fango: il primo vero villaggio africano, come avrebbe dovuto essere, che vedevo da quando stavo in Ghana. Il pick-up attirò fuori dalle case uno stuolo di bambini vestiti con vecchie t-shirt di squadre americane. Erano una tribù, certo, ma soprattutto erano poveri. Al centro del villaggio, incongrue con quello che le circondava, c’erano una grande poltrona un po’ sgualcita e quattro sedie. In dieci minuti tutto il villaggio era seduto nello spiazzo davanti. I bambini non mi seguivano, avevano paura. Se provavo ad avvicinarmi, i più piccoli scoppiavano a piangere. Solo gli adolescenti si avvicinavano per sfida, attirando gli sguardi ammirati dei coetanei, e mi stringevano rapidi la mano per poi allontanarsi troppo in fretta. Ci fu un colpo secco di tamburo e si capì che stavamo per iniziare. Dovevamo distribuire soldi, fare ricevute, ricevere i depositi, insomma cose che si fanno in banca. Solo che si era mossa la banca, invece del villaggio. Ci avvicinammo alle sedie, risistemando le camicie e le cravatte meglio che potevamo. Il capo-villaggio distribuiva i posti. Yaw si beccò la sedia più esterna, Alex quella a sinistra della poltrona. Rimanevamo in piedi io e il mio capo. Il capo-villaggio ci guardava e prendeva tempo chiacchierando di nipoti e figli e novità. Mi guardava e si torceva le mani. La poltrona e la sedia, vuote. Tutti aspettavano noi. “Se mi da la poltrona mi licenziano” pensai. Il mio capo mi guardava di nuovo con uno sguardo torvo.

Written by Carlo

02/04/2015 at 09:18

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Per tutti un portone

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Quando ero piccolo, il portone mi sembrava imponente, quasi infinito. Arrivavo a malapena a sfiorare il battiporta con la punta delle dita. Vedevo l’arco che si chiudeva e poi qualcosa di un colore diverso, ma troppo lontano perché mi interessasse. Era il muro altissimo della casa che continuava su fino al primo piano, oltre le finestre, al secondo, le grondaie, il tetto. Il portone era di un marrone indefinito, graffiato, e perennemente in attesa. Passavo le mie giornate a giocarci davanti, cercando di allontanarmi abbastanza spesso perché non si accorgessero di quanto avrei voluto essere dall’altro lato. Sentivo voci di bambini che giocavano, che cantavano delle canzoni splendide, piene di rime. Ci doveva di certo essere un giardino dentro la casa, un giardino pieno di alberi e cespugli fatto apposta per nascondersi ed esplorare.
Ogni anno, a primavera, il portone si apriva un po’, lasciando intravedere una mano che oliava le serrature: una mano nera, consumata dalla fatica. E poi quel rumore di chiavistelli girati che segnava il confine del desiderio. Mi prendeva una tristezza senza causa, arrossavo e stringevo i pugni come se qualcuno mi avesse fatto un torto. Meglio se non si fosse mai aperto, quel maledetto portone. Meglio se fosse stato sbarrato con delle assi di legno, pesanti, inchiodate da un’anta all’altra come croci. Avrei accarezzato il legno ruvido e l’avrei abbandonato al suo destino, come si fa con i morti o con gli amici d’infanzia. E invece passavo mesi appostato, nell’attesa che il portone si aprisse del tutto, pronto a sgattaiolare dentro.
Gli amici mi prendevano per pazzo: loro correvano in giro, al fiume, nei campi; e io sempre lì. Ma loro non sapevano quello che sapevo io, non avevano ascoltato le chiacchiere, la poesia e i pensieri grandiosi che avevo imparato a decifrare, quasi telepatia, attraverso le vibrazioni attutite dal chiavistello. Erano i miei pensieri più segreti quelli che ascoltavo dall’altro lato. Erano le mie speranze, i sogni che sognavo, solo condivisi, in allegria. Quanti nuove frasi avrei saputo aggiungere alle loro, pensavo ormai adolescente, quanto meglio saremmo stati, io e loro, tutti insieme, finalmente, come avrebbe dovuto essere. Allungando le braccia adesso arrivavo quasi ai tre quarti del portone. Mi appoggiavo, in piedi, sentendo ogni coprivite, ogni bocchetto in rame ossidato premermi addosso, trafiggermi con l’idea che non sarei mai stato più vicino di così.
I momenti peggiori erano le piogge di Novembre, testarde, da cui mi riparavo solo con un cappellaccio, appoggiato al muro, la testa inclinata in avanti e uno scroscio d’acqua che mi finiva a pochi centimetri dai piedi. Sembravo una statua inutile. Avrei dovuto andarmene allora, prima di ammalarmi, non rimanere qui ad invecchiare. Non perché avessi torto: la felicità è la dentro. La sento ancora che freme, che mi chiama senza volermi. Che cerca un modo per abbracciarmi.

Written by Carlo

01/05/2014 at 17:10

Pubblicato su Racconti

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Ciclo vitale della speranza

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Non voglio più questo crepuscolo da avrebbe potuto essere. Non sopporto il velo di malinconia leggera che copre ogni tazza di té bevuta a notte fonda per nascondere che neanche oggi le cose sono andate davvero come avrebbero dovuto. E non voglio il senso di sollievo che, come una ruffiana, viene a leccarci la pancia quando accettiamo, comprendiamo, vediamo le cose in prospettiva, quando, non avendo altra scelta, ci teniamo l’unica rimasta e la stringiamo come fosse una vecchia amica, proprio quella che avremmo sperato di incontrare. Tutti i tramonti rossastri, i mari in inverno, ogni ramo di ogni albero con il suo grido al cielo, tutto mi sembra ingiusto nel suo consolare eterno, come una vecchia monaca, consolare, consolare e ancora consolare.

Ma è sera. Si è appena spento il lampione che acceca la mia finestra. Fuori non piove e le pietre rettangolari disegnano il dorso squamato del gigantesco pesce che sostiene la città e che stasera è fresco, appena uscito dal fiume. La calma allunga il respiro, lo distende, la fiducia mercanteggia, rassicura, presto, sicuramente. E allora accendiamo tante sigarette da illuminare le strade buie e riempire di fumo il cielo, e sfogliamo qualche libro, sempre quello, cercando di nascosto la motivazione più seria, che ci giustifichi. Nei casi peggiori scriviamo e, come dopo una lavanda gastrica, scarichiamo alla pagina tutto il nero, pronti per nuovi tramonti, nuovi paesaggi mozzafiato.

Written by Carlo

19/01/2014 at 22:53

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Quasi un altro anno

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Quasi un altro anno è andato. Consumato lento e rapido come una candela capricciosa. Sono nati amori, è venuto un gran caldo, è passato. Mi sono ritrovato spesso a dire che la vita è un cimitero di incroci mancati, di controtempi che non si chiudono mai sul battere. Tutto è diverso da com’era un anno fa, io compreso, e tutto è simile, tanto che a volte si distingue a fatica l’allora dall’adesso.

Corro in bicicletta sul selciato in pietra serena, lucido d’acqua. I riflessi dei lampioni nelle scanalature e il silenzio della tarda sera mi avvertono che anche Carmelo è chiuso e che non c’è nient’altro da fare. Che è necessario abbandonarsi alla notte, al letto e lasciare che finisca un altro giorno. Saluto tutto con il sollievo di un reduce che non si aspetta che una notte di buon sonno.

Passo attraverso questo 2013 come attraverso i giorni, aspettando e preparando l’anno che verrà, sicuro che non sarà come lo vorrei, bello, giusto, luminoso per tutti, e sperando che quello che metterò insieme sia comunque migliore di quello che mi avrebbero preparato gli altri senza di me. E in questo chiudo la mia speranza. Come una bottiglia gettata in mare presuppone un messaggio e qualcuno che sappia leggerlo.

Verranno altre primavere e io le aspetto, con i buoni amici che ho, i molti che mancano, con le colpe che porto e non espio, con i venti a favore o contro, costruendo goccia a goccia quello che vorrei essere. Continuo e non mi fermo, sperando che questo basti come giustificazione. E a tutti auguro delle feste serene.

Written by Carlo

21/12/2013 at 02:20

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Il bicchiere della staffa

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Il vino non aveva più sapore. Per quanto chiudesse gli occhi, lo facesse passare avanti e indietro sulla lingua e si sforzasse di ascoltare con attenzione, niente. Avrebbe potuto essere aranciata. Posò il bicchiere e guardò i figli e i nipoti seduti attorno alla tavola. Li invidiò ferocemente: idioti che avrebbero potuto ancora ascoltare il bouquet di qualche splendido Les Caillerets Louis Latour del 2003, con la sua tinta dorata e il sapore di mandorle fresche. E invece bevevano alla svelta, sperando di accorciare quella serata insolita, vino bianco e pesce, rosso e bistecca. Lo guardavano con quei loro occhi bovini come fosse un vegliardo saggio e buono. Cretini.

Il figlio maggiore gli ricordava un brunello Podere la Fortuna del 2006 che aveva bevuto con dell’anatra arrosto: terribilmente onesto, articolato in ogni sapore come un manuale di storia delle medie. La figlia un Müller-Thurgau Casata Monfort del 2011, nevrotico, sempre sul punto di eccedere e che metteva in un angolo perfino gli scampi alla bussara. Poi c’erano i nipoti, ventenni rampanti che da piccoli lo irridevano quando annusava un bicchiere per due, tre minuti: vinelli bianchi da niente, ambrati, troppo vecchi anche da giovani. Sospirò. Era circondato da idioti. Nessuno sarebbe stato capace di distinguere una nota di frutta secca da una legnosa nel vino che bevevano.

– Meglio così – disse a bassa voce.

Lui, invece, ricordava benissimo l’odore di quel Barolo Cascina Francia del 2004. Lo rivedeva come un paesaggio: speziato con noce moscata e ginepro, fruttato con mora a bacche rosse, floreale con note di violetta. Si ricordava ogni piatto che aveva accompagnato con quel vino: lepre alla cacciatora a Gennaio, cervo con polenta a fine Febbraio e coda di vitello brasata a Marzo. Se lo ricordava bene perché dopo aveva perso odori e sapori: ‘anosmia acquisita permanente’ dissero. Aveva preso l’influenza, come tutti, ma lui ne era uscito senza più il gusto, la gioia della sua vita. A ripensarci adesso, fu quella giornata che decise tutto.

Uno dei suoi nipoti iniziò a sbadigliare e lo sbadiglio si propagò alla tavola. Guardò quelle bocche piene a metà di cibo misto vino ed ebbe un attacco di nausea. Per resistere recitò Omar Khayyam:

– “Vino bevi e di nulla ti cura ché il saggio già disse: la pena del mondo è veleno, e vino l’antidoto buono” –

Partì un applauso fiacco di tutti i commensali che erano abituati ad ascoltarlo citare poesie sconosciute. Li squadrò con brutalità.

– L’abbinamento vino e cibo risale a Galeno: vini forti con alimenti delicati, vini freddi con cibi caldi. Credevano che l’opposizione reggesse il mondo, lo tenesse in equilibrio. –

Dal fondo della tavola si levarono dei sospiri rochi. I nipoti sudavano freddo.

– Poi abbiamo cercato l’affinità, l’equivalenza fra sapori. Abbiamo creduto che il mondo fosse un posto buono: armonia fra tutte le cose. –

Ebbe un altro attacco di nausea mentre sorrideva. Si accorse che anche suo figlio si teneva la mano sullo stomaco e aveva la faccia pallida. Sua figlia stringeva il tovagliolo fino a farsi male, bianca come un marmo.

– Invece non esiste niente che non sia arbitrario, instabile. Tutti i miei abbinamenti funzionano solo perché ci siamo abituati. – una fitta ai bronchi lo fermò.

– E fra cinquant’anni non piaceranno più a nessuno. –

Sua figlia iniziò ad agitarsi sulla sedia: la sentiva borbottare che aveva un tremendo mal di testa, insopportabile.

– E quindi a che serve? Invecchierete e il vino, questo buon cibo, tutto diventerà pappa insapore, omogeneizzato di cenere e latte. –

Intorno al tavolo tutti si guardavano, qualcuno si era alzato gemendo rumorosamente, gli sembrava, e barcollava verso la porta. Qualcuno era a terra, sguardo al soffitto.

– “Bevi vino, ché una vita che ha in fondo solo la Morte meglio è che passi nel sonno, meglio è che passi in ebrezza” – disse sottovoce, incerto d’averlo solo immaginato.

– Vecchio stronzo – aggiunse con rispetto suo figlio.

Written by Carlo

31/10/2013 at 15:46

Solitudine disperata di un telefono da ufficio

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Passa il tempo e l’ufficio si svuota. Ieri hanno tolto altre tre scrivanie: sono arrivati a mezzogiorno, senza dire una parola, hanno aperto una piantina scarabocchiata, si sono guardati intorno e hanno portato via la scrivania di Michele. I cassetti, uno per uno, li hanno rovesciati in delle scatole di cartone. Poi li hanno appoggiati sul piano bianco, chiazzato di vecchi cerchi di caffè. Hanno tirato fuori dei guanti sporchi e in quattro l’hanno sollevata. Camminavano con dei passettini da formica. Li ho sentiti che trafficavano per farla entrare nell’ascensore e poi più nulla.

Sembra di stare fra reduci. Ci guardiamo ogni volta, contenti che le nostre scrivanie, sempre più sole in questo stanzone, siano ancora qui, piene di penne, vecchie pratiche dimenticate e linee guida illeggibili. Michele aveva tutta l’area sud-est: cinquanta clienti e più o meno duecento famiglie. Lavorava bene, per quanto possibile. Non smetteva mai di rispondere al telefono, come facevamo tutti una volta. Neanche quando mancavano dieci minuti alle sei e ormai si respirava un’aria da ‘libera tutti’. Parlava poco, ma non era depresso come ci hanno detto. Mentono sempre quando sparisce una scrivania. All’inizio toccò a Manuela. Ci dissero che aveva lasciato per problemi famigliari: aveva tre figli e un marito. Non ci facemmo troppo caso. Manuela era antipatica a tutti: sempre a discutere, polemica come una serpe. L’ultimo giorno uscì sbraitando, carica di fotografie e scatoloni, urla da ragazzine isteriche. In fin dei conti si lavorava meglio senza di lei, tutto era più semplice, il fiume carsico dei fascicoli scorreva meglio da una scrivani all’altra, da un piano all’altro. La volta dopo si fecero più furbi: Gianni, il mio Gianni, non riuscì neanche a entrare in ufficio. Il suo cartellino non funzionava. Lavorava qui con me da 15 anni e una mattina il portiere gli dette una lettera e due scatole piene di ninnoli e piccole piante d’appartamento. Gianni mi diceva che non era neanche riuscito a guardarlo in faccia. Gli aveva fatto scivolare la lettera sotto il naso e spinto le scatole ai piedi, senza un saluto. Avevano bevuto insieme litri di caffè, commentato probabilmente due, trecento partite ogni lunedì. E quel pover’uomo non riusciva neanche a guardarlo affondare sulle scale mobili, carico di foglie polverose che si agitavano al sole.

Poi aumentarono il tiro: tre, quattro ogni settimana. Uno stillicidio di operai svuotava e smontava. Alle volte erano le scrivanie di colleghi pessimi, scansafatiche ministeriali, abili nell’evitare ogni lavoro. Altre, di colleghi migliori: ordinati, efficienti, amati dal capo che non usciva neanche più dalla sua stanza sul lato ovest del piano. Eravamo andati a parlargli, prima arrabbiatissimi, poi spaventati e alla fine solo increduli. Sembrava dimagrito di una quindicina di chili. Mi sembrava di rivedere mio padre quando mi accorsi che era diventato vecchio. Balbettava, giustificava e accusava, aveva paura come noi. Non mandava più circolari grondanti ordini imperativi e a volte passava pomeriggi interi a guardare il soffitto, immaginando i tanti piani sopra la sua testa, dove, presumibilmente, iniziava tutto.

Alla fine rallentarono di nuovo: uno, due al mese. C’era chi lavorava di più, cercava di rendersi indispensabile, infilava cliente su cliente, progetti nuovi su progetti, e finiva per sparire come il suo vicino che non aveva fatto più nulla da quando si era accorto di essere l’ultimo rimasto della sua sezione. Cercavamo di corrompere gli uscieri del quarantacinquesimo piano, la Presidenza, perché ci dicessero cosa sentivano in quei corridoi. Dopo il primo anno passato così, cominciarono a circolare le teorie più strane. Mario, un bravo contabile della sezione acquisti, aveva creato un foglio di calcolo con dodici diversi fogli di lavoro, pieno di grafici e rimandi, che metteva in ordinata i guadagni stimati di ognuno e in ascissa gli anni di carriera. Spiegava a chiunque volesse ascoltarlo che era tutta una sceneggiata per non pagarci la pensione. Lucia, invece, sosteneva che l’azienda stesse fallendo, nonostante il fatturato in crescita, perché aveva sentito che i dirigenti avevano smesso di ordinare champagne per la loro mensa al trentesimo piano. E se facevano a meno dello champagne non era certo perché avessero fatto voto di sobrietà. A me, più di tutti, piaceva la teoria di Giulio, un ex-sindacalista che aveva stracciato la tessera anni prima e ora si vestiva solo di nero e si era fatto crescere una barba da pope russo. Se ne stava alla sua scrivania d’angolo e nessuno l’aveva mai visto alzarsi. Quando arrivavo la mattina, era già seduto davanti allo schermo con lo sguardo fisso, a metà concentrato e perso. La sera lo lasciavamo ancora lì, la mano sul mouse che cliccava a intervalli regolari, un clic ogni minuto. “Se non ti alzi mai e non lasci mai la scrivania, non possono togliertela” mi diceva quando mi avvicinavo per salutarlo. Io annuivo e gli appoggiavo la mano sulla spalla e annuiva anche lui e mi ringraziava confuso. Lo scorso ottobre arrivai e non c’era più né scrivania, né barba. Dovevano averla presa di notte, pensai. Odiavo invece gli apocalittici, capeggiati da un ex-prete che aveva sposato una ragazzina. Erano convinti che le sparizioni fossero una punizione per i peccatori: chi rubava all’azienda, anche solo una graffetta, chi non credeva alla mission e alla vision con tutto sé stesso, peccatori insomma. Ogni pausa pranzo si riunivano in circolo per leggere l’ultima versione del Manuale dell’impiegato e recitavano: “Grazie al nostro entusiasmo, al nostro lavoro in team e ai nostri valori, vogliamo deliziare tutti coloro che, nel mondo, amano la qualità della vita. Dobbiamo essere il punto di riferimento dell’eccellenza e l’azienda più innovativa, che propone i migliori prodotti. Grazie a questo, crescere e diventare leader dell’alta gamma a livello globale, creando valore per i nostri stakeholder.”. Ad un certo punto ero rimasta l’unica a non partecipare alle sedute. Tanti lo facevano perché non si può mai sapere. Altri si accontentavano di una spiegazione, per quanto assurda, e di una strategia per sopravvivere. Sempre meglio dell’alternativa. Il prete aveva fatto stampare dei piccoli manuali dell’impiegato che sembravano breviari. C’era chi li teneva sempre addosso, ma tutto si sgonfiò molto rapidamente quando la scrivania dell’ex-prete, ricoperta com’era di piccoli santini pieni di citazioni del tipo “Il dipendente non accetta, per sé o per altri, regali o altre utilità” oppure “Il dipendente si astiene dal prendere decisioni o svolgere attività inerenti alle sue mansioni in situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi” sparì come le altre. Uscendo la sera trovai i piccoli libretti neri buttati a terra appena fuori dall’ingresso e non se ne parlò più.

Ormai aspettiamo e basta. In giro c’è un vago scetticismo. “Tanto non sai mai quando ti tocca” mi dicono i pochi colleghi che incrocio entrando. Per arrivare alla mia scrivania ne passo un paio in tutto il piano, lontanissimi. Ci salutiamo con un cenno del capo, parlando poco. Non conosco quasi nessuno di quelli rimasti e non voglio imparare i nomi. Il corridoio sud è completamente vuoto. Si vedono ancora sulla moquette i quadrati più chiari dei cubicoli. Ogni tanto un telefono dimenticato inizia a squillare. Strappa il silenzio stupito e fa male come una coltellata: drin, drin. Immagino continuerà a strillare anche quando non ci sarà più nessuno, da solo, imperterrito.

Written by Carlo

11/09/2013 at 15:05